Nata a Taranto nel 1974 da genitori toscani, laureata in Storia contemporanea a Bologna, SteelMaster all’ICSIM di Terni, dal 2000 lavora in Subfor – Azienda speciale della Camera di commercio di Taranto della quale coordina le attività promozionali e di comunicazione dal 2008. Co – fondatrice e già Presidente dell’Associazione Ecosistema Camerale, è anche coordinatrice territoriale Puglia – Basilicata di PA Social – Associazione italiana per la nuova comunicazione.

Se dovesse scrivere il primo capitolo di un libro sulla sua carriera, come inizierebbe?

«L’incipit ideale? “Torno indietro nel tempo a quando credevo che la vita fosse una progressione, una linea continua. Mi sono poi accorta che, invece, la realtà è piega, differenza, involuzione e crescita, porosa e permeabile ai mutamenti, molto più complessa di ciò che hai studiato e per cui ti eri preparata. Apro la mente e accetto questo movimento non lineare”. È un’attitudine che, almeno nella mia esperienza, si è rivelata importante per affrontare grandi e piccoli cambiamenti e per mantenere alte la performance lavorativa e la soddisfazione personale».

Perseguire finalità di beneficio comune e operare in modo responsabile, sostenibile e trasparente: le società benefit possono rendere il mondo economico più “umano”?

«Quello delle società benefit è un tema che in Camera di commercio di Taranto abbiamo affrontato subito, fin dall’entrata in vigore della legge nel 2016. Per rispondere riprendo il concetto di prima: semplificando la questione, diciamo che siamo abituati ad un certo tipo di economia che assume il profitto a scopo unico dell’impresa. Attenzione, non necessariamente un’economia cattiva, ma, per come la vedo io, priva di qualcosa di indispensabile, incompleta. Oggi più che mai, infatti, ci rendiamo conto che ogni impresa è un organismo vivente che opera in un territorio, in una comunità, e che imprenditrici ed imprenditori sono persone che ad un certo punto hanno deciso di realizzare qualcosa che spesso coincide con un’ambizione, una speranza, un sogno.

A volte quel sogno si perde nelle difficoltà o il percorso devia, ma altre, come nel caso delle società benefit, ecco che emerge in tutta la sua potenza e urgenza. Questo tipo di imprese, che insieme ad altre tipologie fa parte dell’ampio spettro di una economia civile, non sono di per sé migliori di altre solo perché cambiano il proprio statuto o aggiungono l’etichetta SB alla propria denominazione, ma intendono diventarlo per contribuire a portare modifiche sostanziali in un modello di sviluppo che non funziona più. È una netta differenza – ovviamente da dimostrare in modo trasparente e misurabile così come prevede la legge – che credo possa davvero rappresentare uno dei punti di svolta verso un’economia più equa. E sono felice che siano tante le donne che operano, come imprenditrici o manager, nell’ambito benefit. Penso che davvero questo modo di fare impresa corrisponda bene a certe skill femminili di leadership e organizzazione».

Donne ed economia: quanto è importante la presenza femminile nei luoghi della rappresentanza?

«Non è importante, è fondamentale. Non amo una visione da specie protetta, poiché prediligo il merito, ma noto che ancora oggi nei luoghi delle decisioni, della rappresentanza e del “potere” economico la presenza femminile continua ad essere insufficiente e sono sicura che non si tratta di assenza di competenze o, addirittura, di eccellenze. È, al contrario, un meccanismo difficile da smontare, per diversi ordini di motivi che vanno dalla nostra incapacità di superare certe barriere o pregiudizi sino alla concreta invalicabilità di alcune strutture pubbliche e private, e che purtroppo crea danni crescenti. I numeri ci dicono che ne risente la produzione di ricchezza di un Paese, la capacità innovativa e anche la coesione e l’inclusione sociali. Se le decisioni sono prese prevalentemente o esclusivamente da uomini, ecco che perdiamo una varietà logica ed emozionale imprescindibile per gestire, ad esempio, la complessità del mondo economico, non solo ai livelli internazionali e nazionali, ma anche nei contesti locali più difficili e soprattutto di fronte alle crisi di sistema come quella generata dalla pandemia».

Quale è stato il momento in cui ha pensato di essere coraggiosa?

«Se devo essere sincera, non ho una consapevolezza razionale del mio coraggio. Ho sempre agito di cuore (parola che è poi la radice di questo stato d’animo) anche nelle situazioni personali più dure, mai però autocelebrando la mia combattività. Decidere di tornare a vivere e lavorare a Taranto nel 2000 e poi restarci e costruire qui il futuro, ad esempio, potrebbe essere interpretato come “temerario”. Io, invece, ho semplicemente fatto ciò che doveva essere fatto, così come mi ha insegnato la mia famiglia. Insomma, penso che il coraggio di una donna sia anche mantenere una buona dose di umiltà e di autoironia».

Quale consiglio darebbe a chi vuole seguire la sua strada?

«La mia strada è quella di lavoratrice e madre, ruoli entrambi ai quali non ho voluto e, fortunatamente, non ho dovuto rinunciare. È una strada fatta di successi e fallimenti, molte privazioni e tanto impegno nel rigenerarsi continuamente con lo studio e la passione per ciò che si fa, elementi essenziali se, come nel mio caso, si svolge un servizio pubblico.

Il consiglio è, quindi: iniziate a muovervi, ponetevi obiettivi sempre un po’ più alti di quelle che credete siano le vostre capacità e competenze, non limitatevi ad essere individui ma diventate persone, piene ed in relazione con gli altri».