Annalisa Galardi, insegna Comunicazione d’Impresa all’Università Cattolica di Milano, è Consigliere di Amministrazione della Fondazione Adriano Olivetti e founder di The Bravery Store. Ha da sempre lavorato sia all’interno che all’esterno dell’ambito accademico, privilegiando esperienze professionali caratterizzate dalla tensione all’innovazione e dalla contaminazione tra le diverse discipline. Oggi ispira il coraggio di persone e brand per una leadership sempre più diffusa, necessaria in un mondo in continua trasformazione.
Come nasce il suo sogno?
«La mia storia professionale non è per niente lineare, un po’ perché ho una predilezione per l’esplorazione, un po’ perché nella vita qualcosa si sceglie, qualcosa capita.
Sono laureata in Lettere Moderne con una tesi in Psicologia Sociale e ho fatto un dottorato di ricerca in Rappresentazioni e Comportamenti Politici, praticamente un ponte tra Psicologia e Politologia. Contemporaneamente ho iniziato a lavorare in una delle prime case editrici “multimediali”, ai tempi dei CD-Rom, quando avere una rubrica online era davvero avanguardistico. Mi sono sposata a 25 anni e ho avuto tre figli, la mia priorità assoluta in quel momento. È stato bello, ma non è stato facile. Alla prima gravidanza non mi è stata rinnovata la collaborazione che avevo in quel momento e mi sono sentita profondamente umiliata, come donna e come persona. Essere mamma e lavoratrice free lance ti fa spesso sentire al posto sbagliato: ero a casa quando tutti lavoravano e lavoravo quando tutti dormivano! Ma sapevo qual era il mio obiettivo e non volevo rinunciare né a stare coi miei figli né a crescere professionalmente. Questo mi ha dato la forza necessaria per scrivere la tesi di dottorato con due bambini piccoli, per partecipare all’Innovation Team di Barilla all’arrivo del terzo neonato progettando un’organizzazione domestica che mi ha insegnato molto per il mio sviluppo professionale, per insegnare in Libano, per preparare le lezioni universitarie, per occuparmi della scuola materna del paese in cui vivo e per fare molte altre cose. Poi i figli sono cresciuti e ho dedicato più tempo al lavoro. Mi sono occupata di formazione e di comunicazione, soprattutto interna. Ho contribuito a fondare e diretto per 5 anni una società di consulenza dedicata all’engagement che mi ha permesso di valorizzare le varie competenze che avevo acquisto nel tempo e ho iniziato a dedicarmi anche alla Fondazione Adriano Olivetti, subentrando a mia madre. L’anno scorso ho compiuto 50 anni e ho fondato “The Bravery Store” con l’idea che occorra ispirare il coraggio inteso come tensione a esplorare il possibile. Nel mio lavoro è centrale l’intelligenza fiorente, cioè quella che si basa su fare bene, stare bene, fare il bene.
La sua storia ha anche il suono del ticchettio di una macchina per scrivere. È la nipote di Adriano Olivetti, qual è il suo ricordo principale?
«Non posso dire di avere un ricordo in particolare perché l’approccio olivettiano è quello che ha ispirato l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito. Confesso che il mio approdo nelle organizzazioni dopo l’università è stato uno shock: non immaginavo ci fosse ancora tanto da fare per sviluppare una cultura realmente basata sulla centralità delle persone e delle comunità…
Il tema della donna stava molto a cuore ad Adriano Olivetti. Nella sua casa si respirava inclusione, a partire dal fatto che sua madre era valdese e suo padre ebreo. Camillo obbligava le domestiche a riposarsi due ore ogni pomeriggio e non voleva passassero la cera perché inutilmente faticoso. Questo rispetto profondo, non connesso ad alcun obbligo di legge, ha sicuramente avuto un impatto importante su Adriano. Ai suoi tempi, a Ivrea lavoravano oltre 3mila donne, molte erano operaie e questo era una novità per quei tempi.
Adriano Olivetti non voleva che alcuna madre lavoratrice invidiasse le madri che avevano la possibilità di trascorrere i primi mesi di vita col loro bambino. Così tutelava le madri con servizi sociali che si distinguevano per la ricchezza e la qualità dell’offerta (dall’asilo nido, alle colonie estive, ai servizi medici).
Si è definita “antifragile”. Può spiegarci questo concetto?
«Preferisco l’antifragilità alla resilienza di cui tanto si parla. Essere resilienti significa resistere agli shock, essere antifragili – invece – andare oltre allo shock e diventare migliori.
Nella mia storia ho considerato anche le peggiori difficoltà personali e lavorative come sfide di crescita. Ho cercato e cerco di guardare sempre la mia vita come la mia impresa, da far fiorire con un senso e una direzione.
Oggi sperimentiamo tutti le fatiche connesse al Covid-19 e sta anche a noi scegliere se passare il tempo a lamentarci, sperare che tutto torni come prima o industriarci per immaginare e costruire un nuovo futuro. ».
Quanto il lockdown ha influito sulla vita delle donne?
«Nel lockdown e nella situazione di remote working credo che sia emersa ancora in modo forte la differenza di genere. Il lavoro di cura è ancora più sulle spalle delle donne e ne ho viste molte affaticate tra lavoro, bambini, compiti, accudimento dei genitori anziani. Sullo sviluppo di una nuova cultura della genitorialità credo debbano lavorare uomini e donne; si evolve insieme».
Esiste un segreto per trovare un equilibrio?
«Consiglio di fare sempre una riflessione sulle tre aree della propria vita: professionale, familiare e personale. Per trovare un equilibrio, nessuna di queste tre deve essere trascurata. Generalmente le donne tendono a comprimere la dimensione del sé e questo genera sempre malessere.».
Qual è la sua ricetta del coraggio?
«Ho approfondito quali sono gli ingredienti del coraggio oggi e il modello che propongo col The Bravery Store è composto da 5 macro dimensioni:
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- il coraggio di dire (prendere posizione, di far sentire la propria voce);
- il coraggio di fare (tradurre i pensieri in progetti, farlo velocemente ed eliminare via ciò che non funziona);
- il coraggio di dare (la collaborazione, la condivisione)
- il coraggio di essere nella relazione (l’inclusione, la delega);
- il coraggio di decidere (scegliere una strada, coniugare il vantaggio personale e quello collettivo)».
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A Cura di Alessandra Macchitella