Designer, si occupa di umanizzazione degli ambienti di cura con Dear Onlus, associazione di cui è presidente e direttore creativo. Il suo codice progettuale mette a confronto architettura, arte e design con la realtà ospedaliera, per indagare nuovi modelli di ricerca nell’ambito della produzione culturale.
“Come decidiamo di porci nei confronti della vita e degli altri è design”
Se dovesse scrivere il primo capitolo di un libro sulla sua carriera, come inizierebbe?
“Partirei da un errore, un fallimento accaduto anni fa, dopo il quale mi sono dovuta fermare a riflettere e ricostruire. Certo, sul momento lo avrei evitato volentieri, ma dopotutto anche a livello narrativo senza le difficoltà non c’è storia, perché non c’è evoluzione. Nella mia vita è stato uno spartiacque che ha dato avvio a una nuova fase: in quel periodo ho deciso di fondare DEAR”.
Quale strada l’ha condotta al suo impegno nell’umanizzazione degli ambienti di cura?
“Ho iniziato a maturare questo interesse durante gli anni degli studi universitari in architettura, attratta dalla trasversalità del tema in grado di unire l’approccio umanistico, quello creativo e quello più tecnico della progettazione. Ho dedicato la mia tesi di laurea proprio a questo tema, approfondendo quelli pediatrici. Dopo esperienze professionali in ambiti diversi, nel 2016 assieme ad altri professionisti ho fondato l’associazione DEAR, che si occupa di promuovere l’umanizzazione degli ambienti di cura attraverso progetti che spaziano dall’architettura al design, dalle arti visive al digitale”.
Che ruolo ha il design nella quotidianità delle persone?
“Anche se non ce ne rendiamo conto, il design, inteso come progettazione, è al centro della quotidianità di ognuno di noi. Ci autoprogettiamo ogni giorno in ogni nostra scelta, quando decidiamo cosa mangiare e indossare, se prendere la macchina o usare il mezzo pubblico, quali sono i nostri obiettivi e come decidiamo di raggiungerli. Come decidiamo di porci nei confronti della vita e degli altri è design. Per questo l’educazione al progetto dovrebbe diventare una materia scolastica, da insegnare ai bambini fin dalla più tenera età: per acquisire consapevolezza del potenziale creativo che ognuno di noi possiede”.
Quale è stato il momento in cui ha pensato di essere coraggiosa?
“Non mi spaventa mettermi alla prova in nuove esperienze, ma non ho mai pensato di essere coraggiosa. Penso invece sia coraggioso il lavoro che facciamo con DEAR, con cui proviamo a portare un certo tipo di cultura progettuale all’interno dei luoghi di cura e in particolare negli ospedali. Sono luoghi ad alta complessità, dove non si tratta solo di definire che cosa progettare, ma come farlo, affinché il progetto svolga il ruolo di agente di cambiamento. Queste scelte progettuali hanno molto a che fare con il coraggio, non solo nostro, ma anche delle realtà con cui lavoriamo, che oggi più che mai sono in grande affanno”.
Quale consiglio darebbe a chi vuole seguire la sua strada?
“Consiglierei di cercare le persone giuste con cui condividere la propria strada e i propri obiettivi. I primi sei anni di DEAR mi hanno arricchita sia sul piano professionale sia umano e tutti i risultati raggiunti, cui non avrei mai potuto ambire da sola, sono frutto del lavoro del gruppo. Sono anche nate delle solide amicizie: un altro aspetto di cui vado orgogliosa”.